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FLANERI.COM

 

Bada-mi
Roma, Officine Culturali INsensINverso
articolo di Giulia Nisti


“Attendere a qualcosa, averne cura, sorvegliarla (…), dedicare premure, trattenersi, anche indugiare”.
Così sentenzia la Treccani, baluardo del cartaceo tra colonne di click, una sfinge d’inchiostro che irride all’affanno dell’ultimo sito.
Voce del verbo “badare”. Prima fiammante coniugazione di un tempo sempre stretto. Sempre poco. Già finito.
E alla sequela di definizioni, ormai sapute, universali, se ne aggiunge una pioggia freschissima. A volte acida. Perché oggi “badare” vuol dire anche altro.
Respirare al di qua di una porta aspettando soltanto il momento di aprirla, di sentire il proprio nome storpiato come un arto; avvicinarsi ed assistere, tamponare la bava, accostare il cucchiaio e imboccare ogni ora un po’ di attenzione.
Perché oggi chi bada si chiama “badante”. Un esercito armato di giorni lunghissimi, interi silenzi e storie così enormi da non conoscere valigie.
Sono quasi sempre donne, quasi sempre immigrate, risucchiate nel gorgo di un pugno d’asfalto, di un tetto più forte, di un futuro che non sappia di fango.
C’è chi fugge da una terra troppo livida, chi lascia la propria figlia a casa per accudirne una non sua, chi addiviene ad un accordo impossibile pur di non perdere il “privilegio di esistere”.
Sono loro le compagne fidate dei nostri nonni, di vecchi in aumento.
Sempre più soli. E sempre più scomodi.
Sono loro quelle dita che spezzano il tremore, che sciacquano in disparte le nostre mancanze, i nostri sensi di colpa. Sono loro che si sono raccontate.
Stasera, attraverso le parole di un testo densissimo. Con un titolo senza alcuna via d’uscita. Bada-mi, scritto e diretto da Silvia Pietrovanni e interpretato assieme a lei dalle attrici della Compagnia di Teatro Sociale Anemofilia, come il vento che soffia sui pollini e li prende per mano.
Elisa Angelini, Valentina Conti e Cristiana Saporito (Elisabetta Badolisani come tecnica del suono) hanno dato voce, corpo e intensità a vissuti accucciati nell’ ombra. Ad un passo dalla stanza eppure spesso in un altro pianeta.
Quattro badanti, quattro volti di quelli che incrociamo in un parco e che confondiamo tra bastoni e panchine, convinti che quegli occhi non riescano a sfiorarci. Che quei passi invisibili non ci riguardino.
Tratto da testimonianze reali, poeticamente drammatizzate, Bada-mi propone quattro esempi d’integrazione: sudata, rincorsa, forse riuscita, forse mancata.
Donne senza nome, quasi tutte senza un’origine precisa, che qualunque fosse la loro partenza, hanno affrontato un viaggio tortuoso. Fuori e dentro se stesse.
C’è la ragazza italiana, ingenua e trasognata, che sposa un clandestino per salvarlo dalla legge, che festeggia il suo sì con un sorso di birra e si ritrova a scoprire sapori più amari. C’è la badante di Ubaldo, che pretende da lei ben altre carezze, che “sporca di buio” ogni palmo di pelle.
C’è la ragazza costretta a segreti peggiori, a berli in fretta come fossero pozioni. Costretta ogni notte ad appoggiare il suo corpo su un altro più debole del suo.
E poi c’è il genio fallito, la brillante ricercatrice innamorata del Teorema di Bell e spinta dal destino verso altre direzioni, più spoglie e meno quantistiche.
Tutte tratteggiate con frammenti di poesia. Anche dove l’unico suono pensabile sarebbe stato solo un urlo. La compagnia, in scena anche a fine maggio al teatro Le sedie, è impegnata fin dalla sua fondazione a declinare il femminile nelle sue varie istanze, come maternità negata, come inferiorità subita e prima ancora autorizzata, non risparmiando nessuna emozione.
Lo spettacolo, svoltosi nelle Officine Culturali INsensINverso, all’interno della serata Casa e famiglia, in cui è stato presentato anche il libro Estrella di Ugo Sestieri (Editore Gorée), ha coinvolto un pubblico affollato e sensibile, che non ha contato gli applausi. E nemmeno le lacrime.
Forse allora ha davvero ragione Bell. “Se una particella subatomica può produrre azione anche a distanza”, non c’è storia che resti lontana. Neanche la loro.
E non c’è direzione che non possa essere cambiata.

 

 

 

Articolo di Virgilio Violo su “flipnews.org” del 28-02-2010

 


Badami: 26 e 27 febbraio 2010.
 
Badami: e non puoi non “badare” a tematiche così forti che trovano voce. Lo spettacolo teatrale messo in scena dalla compagnia Anemofilia tocca infatti un tema silente e purtroppo comune: quello dei ricatti a cui sono sottoposte le badanti, straniere, con o senza permesso di soggiorno. La nazionalità non viene mai menzionata, infatti ad essere migranti siamo stati anche noi, dal Sud verso il Nord, come dall’Italia verso il resto del mondo. 
La compagnia è nata da poco e il nome è già manifesto ideologico: Anemofilia, ovvero il vento che trasporta i pollini per far nascere nuova vita: simbolo di mobilità di idee, prima che di persone, idee che hanno come obiettivo quello di far nascere altre idee, o mettere in discussione quelle cristallizzate e incapaci di evoluzione.
Lo spettacolo vede in scena Silvia Pietrovanni, Fanny Lena e Cecilia Moni. 
Le tre donne che vengono rappresentate sono diverse tra loro, nei caratteri come nelle storie eppure hanno in comune la presa di coscienza e la reazione alla sottomissione, una ribellione ai “padroni”, datori di lavoro o figure maschili che non trovano voce in questo spettacolo, ma trovano simboli: la catena, la camicia da uomo.
Molto interessante è l’uso della maschera neutra: segno che dietro quella maschera bianca c’è sempre una donna, o un uomo che vuole uscire, gridare, vivere.
L’obiettivo è raggiunto: la platea mantiene un’attenzione costante e qualche pupilla diventa lucida: segno che il polline ha trovato la sua corolla, segno che il terreno ha accolto una nuova vita, una nuova idea.
In progetto per la compagnia la ripresa dello spettacolo “Lontano dal cuore” che indaga la maternità a distanza e la realizzazione scenica di uno spettacolo sulla Dea madre e su quella parte di storia ancora poco conosciuta, quando alla base c’erano rapporti sociali meno conflittuali, più armoniosi e più legati alla terra e ai cicli naturali.

 

 

walwian

Articolo di Matteo Puzelli su “Walwian.com” del 25-02-2010


Anemofilia. Teatro sociale.

È la prima volta che il teatro arriva su Walwian. O meglio, il teatro c’è sempre stato, in varie forme e con vari intenti. Ci sono state storie di finzione e di verità, maschere e giochi e sipari che si chiudono.
Oggi, però, ci piace portarvi una testimonianza diversa. Una testimonianza di chi il teatro lo fa e lo usa, per comunicare. Per comunicare qualcosa che va al di là del proprio ego, e che cerca, invece, di essere espressione e voce di chi, la propria voce, non riesce a farla ascoltare. Questo progetto, il progetto di cui vi vogliamo parlare, ci piace proprio per questo. Perché, secondo noi, è un’esperienza di libertà. Libertà di dire, di fare, di raccontare e di cercare la libertà altrui. Parliamo di Anemofilia, una compagnia teatrale nata da poco, una compagnia che fa teatro di denuncia sociale e che oggi, il giorno prima del debutto di “Bada-mi”, condivide anche qui, tra questi byte, il proprio percorso.
Luogo: “Baffo della Gioconda”, via degli Aurunci 40. San Lorenzo, Roma
Tempo: ieri, dopo le prove del nuovo spettacolo “Bada-mi”
Oggetto: Una chiacchierata con Silvia Pietrovanni, autrice dei testi di Anemofilia e attrice.
Ciao Silvia, intanto cominciamo con la domanda più ovvia: perché Anemofilia?
È una parola che ho trovato passeggiando per il vocabolario, una parola che trovo poetica, nonostante faccia parte del linguaggio specialistico della botanica: è il polline trasportato dal vento. vorrei che le idee contenute nei nostri spettacoli fossero quel polline, che, senza una direzione precisa, va  a posarsi sulla corolla di un fiore per far nascere nuova vita…abbiamo la presunzione di scuotere e far germogliare un nuovo punto di vista, una luce su quelle zone d’ombra su cui non ci si sofferma.
Cosa intendi per teatro sociale?
È il teatro che sa sporcarsi le mani, scendere per strada, nelle cantine, è il teatro che sa scendere dal palcoscenico, mi viene da dire che è il teatro di chi non fa teatro, di chi non ha come scopo principale la realizzazione scenica, ma spera che le idee vengano raccolte  e fatte germogliare. La soddisfazione più grande è per me vedere, a fine spettacolo, l’occhio lucido, segno di una coscienza che è stata scossa, segno che il polline ha trovato la sua corolla…
Sappiamo che avete in cantiere due spettacoli: “Lontano dal cuore” e “Bada-mi”. Qual è il filo comune che li lega?
A legarli è la donna vista nel suo aspetto di reazione alla sottomissione, alla piega degli eventi. e il fattore immigrazione nel senso globale, perché non vengono mai menzionate nazionalità: gli stati d’animo dell’emigrante possono riferirsi anche alle donne e agli uomini del Sud Italia, o della Sardegna, anche loro infatti, hanno lasciato la famiglia e sono spesso stati sfruttati e ricattati.
Raccontaci qualcosa in più. Cominciamo da “Lontano dal cuore”. Da cosa nasce?
Il titolo è stato preso da un concorso letterario per terre di mezzo a cui ho partecipato con un racconto a tre voci che poi ho deciso di trasformare in 3 monologhi, e successivamente in uno spettacolo teatrale. Per quanto riguarda la storia, è una storia vera, che mi è stata ispirata da una bambina peruviana a cui davo lezioni di italiano e che diceva di avere due madri, quella naturale, che conosceva poco e la zia, che l’aveva cresciuta prima di arrivare in Italia. Ho cercato di entrare nell’emotività di queste tre donne e spero di  esserci riuscita. Alcuni frammenti del racconto sono stati messi in scena nello spettacolo “Trapianto di cuore globale” di Maddalena Grechi, che indaga appunto la maternità a distanza delle donne immigrate.
E Bada-mi?
Le storie delle due donne immigrate in Bada-mi sono storie vere, la badante costretta a prestazioni sessuali è, purtroppo, un fenomeno diffuso ma che tende a restare sommerso. Badami nasce come lettura teatrale, ed è il mio primo esperimento di regia.
Abbiamo potuto assistere a una prova di questo spettacolo e abbiamo notato degli oggetti sparsi sul palco. Hanno un significato particolare?
Si, la mancanza di scenografia è data dal fatto che vorrei che gli spettacoli fossero adatti ad essere portati in qualsiasi luogo, ma è vero, gli oggetti hanno tutti un significato: il carillon rotto è la maternità sofferta di una madre che vorrebbe crescere la figlia ma il lavoro la costringe ad essere lontano da lei quasi tutto il giorno, la camicia rappresenta la figura maschile, presente e tuttavia mancante, il matrimonio della donna italiana e della donna straniera sembra più simile ad una marcia funebre, perchè quell’uomo non è reale, ha una doppia vita per la donna italiana, è simbolo di sottomisisone per la donna straniera. La catena ha una simbologia abbastanza esplicita, cosi come la valigia, segno di un partire “etimologico”, che sia un partire partorire, un rinascere, una taglio del cordone per la ricerca di una identità non frammentata. 
Bada-mi andrà in scena venerdì 26 e sabato 27. A quando e di cosa parlerà il prossimo spettacolo?
Sto studiando molto per il prossimo testo, vorrei portare in scena uno spettacolo sulla figura della Dea madre, su quella divinità dai mille nomi e dalle mille lingue che è immagine di una storia che non ci viene raccontata, una storia in cui non c’era Dio, non c’erano guerre, le città non avevano mura difensive, non c’era il concetto di famiglia e di pater familias, si viveva secondo i cicli naturali e con un profondo rispetto per quelle qualità femminili che l’arrivo del Dio ha messo in secondo piano o ha demonizzato. È una riflessione sulla religione e su come erano strutturati i rapporti sociali. L’idea è nata dalle ricerche dell’archeologa Marija Gimbutas e dal libro di Pepe Rodriguez “Dio è nato donna” (purtroppo non più in commercio). Mi piacerebbe approfondire anche la figura archetipica di Lilith, la prima donna che Adamo rifiuta perché non si sottomette alla sua volontà.

 

 

 

Se il lavoro non c’è, almeno lo si recita a soggetto

di Filomena Pucci

 

Se di lavoro in giro non si trova a teatro invece, ce n’è a bizzeffe. Molti sono gli spettacoli, gli interpreti e addirittura i festival interamente dedicati a raccontare le anomalie del lavoro e le folli vicende umane, da sempre legate a questo ultimo.

Il teatro sociale ricorda al grande pubblico fatti che appartengono alla storia della società, italiana e non, in maniera dettagliata, approfondita, con l’intento di svelarne la verità più agghiacciante. Molti di questi sono testi sempre più spesso dedicati al lavoro, e sono stati portati alla ribalta del grande pubblico da interpreti come Paolini e Celestini, ma come loro ce ne sono altri che fanno della ricerca e dell’informazione puntuale la base per i loro testi teatrali.

Come Mario Perrotta che con il suo spettacolo Cingali fa indignare raccontando le vicende dei minatori italiani emigrati in Belgio e costretti a condizioni di lavoro indecenti, che porteranno come si sa all’incidente di Marcinelle.

Oppure Ulderico Pesci che con Fiato sul collo, racconta l’illusione, la disillusione e la presa di coscienza di Antonio e Angela, due operai della Fiat che credevano di aver risolto la loro vita una volta assunti nello stabilimento di Melfi e che invece si ritrovano indebitati e a vivere con ritmi disumani di lavoro.

Molti nuovi spettacoli invece raccontano il lavoro anonimo, quello che non ti permette di aspirare a niente, nemmeno a una manifestazione sindacale. I lavori precari, i call center o il lavoro in nero, di cui addirittura non si sa niente, neppure quando ci muori.

Lo racconta Luca De Bei in Tutte le mattine alle quattro, con i tre protagonisti Cira, William, Stefan, che si ritrovano puntuali tutte le mattine a dieci minuti alle quattro sotto la pensilina dell’autobus che li porterà in fabbrica.

Tre lavoratori in nero che nell’attesa di arrivare al lavoro si raccontano e diventano amici. Oppure il pezzo di Silvia Pietrovanni, Badami forte ed emozionante spettacolo sulla vita faticosa e spesso ingiusta delle badanti. O ancora Schiavi in mano di Norma Angelini e Fabio Monti.

Ci sono poi pezzi nati dalle penne di scrittori e poi portati a teatro Il mondo deve sapere, (conosciuto al cinema come Tutta le vita davanti) tratto dal romanzo di Michela Murgia o ancora Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni e guadagno duecentocinquanta euro al mese, scritto da Aldo Nove e edito da Einaudi.

Il lavoro arriva a teatro come pure il teatro va sempre più spesso nei luoghi che erano fabbriche o in spazi che ancora oggi sono luoghi di lavoro e da là dentro si racconta, come ne ll salone di Z , ambientato in un vero negozio di parrucchiere, spettacolo sensoriale per due spettatori alla volta.

I modi per raccontare il lavoro sono di volta in volta più originali e d’impatto come il caso della radio a teatro, Ilva, audio documentario scritto da Ornella Bellucci e curato tecnicamente da Gianluca Stasi, presentata per la prima volta quest’anno, nell’ultima edizione dei Teatri di Vetro.

Il lavoro è un’urgenza, sempre più sentita e rappresentata, tanto che alcuni festival stanno iniziando a proporre programmazioni interamente dedicate al lavoro come il festival diretto da Ferdinando Vaselli,Festival Storie di Lavoro , o il festival che si terrà a Milano il 16 giugno, Prosa et Labora.

“Il lavoro è un’urgenza e per la nostra generazione, come per quelle che ci hanno preceduto, una questione d’identità. Il teatro per sua natura parla dell’identità ecco perché sempre più spesso è a teatro che si capisce prima cosa sta succedendo in Italia.” Roberta Nicolai, direzione artistica Teatri di Vetro.

Il blog di Filomena Pucci

 

http://nuvola.corriere.it/2013/06/07/se-il-lavoro-non-ce-almeno-lo-si-recita-a-soggetto/

 

 

 

 

 

Notiziario - Sezione IMMIGRAZIONE del 29/10/2010


Badami”: quando il teatro diventa denuncia sociale 
Uno spettacolo che descrive la difficile condizione delle collaboratrici domestiche, i loro sacrifici, i soprusi e le vessazioni. Giovani attrici esordienti per raccontare la condizione delle badanti immigrate e la forza, tutta al femminile, di ribellarsi
 
ROMA – Uno spettacolo che descrive la difficile condizione delle collaboratrici domestiche, i loro sacrifici, i soprusi e le vessazioni che spesso sono costrette a subire, la privazione di amore, di comprensione e soprattutto la mancanza di rispetto umano. 
Sono tutti questi gli aspetti che vengono messi in luce in “Badami”, opera prima scritta e diretta da Silvia Pietrovanni, vincitrice lo scorso agosto della terza edizione del premio Borrello per la nuova drammaturgia.
Questa domenica, 31 ottobre alle ore 19:30, l’opera sarà in scena presso la libreria Mangiaparole, in zona Furio Camillo.
 
Liberamente ispirato a quattro storie vere, Badami è espressione del cosiddetto teatro sociale, un omaggio a tutte quelle figure genericamente chiamate badanti, donne che ci vivono accanto quotidianamente, costrette a subire ricatti continui in nome di un permesso di soggiorno senza il quale ogni diritto appare negato.
Sul palco - che vede in scena quattro giovani attrici, oltre a Silvia Pietrovanni, Cecilia Moni, Fanny Lena e Cristiana Saporito - le esistenze delle protagoniste vengono presentate in tutta la loro drammaticità.
Si inizia con la storia della badante che viene obbligata ad avere rapporti intimi con il figlio disabile della sua datrice di lavoro, per poi passare a quella della badante di un anziano, madre a distanza di una bambina, che viene ingiustamente licenziata quando decide di dire basta alle richieste di prestazioni sessuali. Poi c’è il personaggio di Nadia, giovane ragazza che si trova ad accudire un’anziana per aiutare economicamente la sua famiglia di origine.
Alle tre esperienze delle donne immigrate si affianca la storia di una donna italiana, madre single con contratto di lavoro precario, che non riesce a crescere da sola la figlia come vorrebbe e che, inaspettatamente, riceverà coraggio proprio dalla baby sitter straniera.
Ognuna di queste donne riesce a ritrovare la propria dignità ribellandosi alla sottomissione mentale e fisica e, come avviene nell’ultima storia, la forza viene trovata a seguito dell’incontro con un’altra donna che capisce e condivide le stesse difficoltà e preoccupazioni.
 
Afferma Silvia Pietrovanni, autrice del testo e attrice: “Ho cercato di entrare nell’emotività delle donne che fanno le badanti, e di descrivere l’amore che queste non possono dare ai propri figli o ai propri genitori lontani e che riversano sulle persone di cui si prendono cura”.
Nel testo la nazionalità delle tre straniere non viene volutamente menzionata, in quanto fino a pochi anni fa il fenomeno riguardava anche le donne italiane, quindi prescinde dalla provenienza geografica e vuole essere uno spaccato della condizione femminile in senso globale.
Durante tutta la rappresentazione le attrici usano la maschera neutra, che a fine spettacolo viene consegnata allo spettatore, una scelta che sta ad indicare la spersonalizzazione del dramma e che la condizione di disagio può riguardare chiunque.
Le storie raccontate in Badami saranno pubblicate il prossimo anno a cura della Fondazione Antonio Russo. (Raffaella Sirena) 
© Copyright Redattore Sociale

 

OLDUNIVERSITY.IT

 

Bada a me che bado all‘anziano, bada a me che bado a tuo figlio, bada a me che lavoro tutto il giorno…” recita la locandina dell’ultimo spettacolo della Compagnia Teatrale Anemofilia (il vento che trasporta i pollini dei fiori), dal titolo “Bada-mi”, scritto, diretto ed interpretato da Silvia Pietrovanni.
Sul palcoscenico, insieme a Silvia, della quale abbiamo già avuto in passato occasione di testare presenza scenica e coinvolgimento emotivo, hanno regalato un’ottima prova anche Cecilia Moni e Fanny Lena.
“Bada-mi” è la storia di tre donne, tre realtà differenti, accomunate da una situazione di costrizione, di abuso, di ricatto; insomma, in una sola parola, di ingiustizia.
E’ il racconto di tre vite portate avanti a forza, perché, per alcuni nella nostra società, vivere è un dovere prima ancora che un diritto, senza dignità né privilegi, per il solo fatto di essere nati in un paese piuttosto di un altro, di avere genitori poveri o di non averli forse neppure conosciuti.
Sono stato alla prima di “Bada-mi”, che si è tenuta venerdì 26 febbraio, presso l’Associazione Culturale “Il Baffo della Gioconda”, situato nel cuore del quartiere capitolino di San Lorenzo, che da anni presta i suoi spazi a concerti, spettacoli teatrali, proiezioni di film, mostre, presentazioni di libri e tutte quelle espressioni artistiche che altrimenti avrebbero difficoltà ad emergere dall’anonimato.
Ho applaudito uno spettacolo ben fatto, curato nei testi, nelle scenografie minimali, nelle musiche, nelle luci e nelle interpretazioni, sempre convincenti, delle tre ragazze, che con l’ausilio di alcune maschere hanno incarnato identità differenti, conquistando l’attenzione di tutto il pubblico.
Ho applaudito soprattutto il progetto insito nella proposta artistica della Compagnia Teatrale Anemofilia, che continua ad esser quello di voler risvegliare le coscienze su tematiche quali il razzismo, l’integrazione, la libertà, che mai come in un’epoca come in quella in cui ci troviamo a vivere, rappresentano per noi tutti il primo problema da affrontare.

 

Foto di Pamela Adinolfi

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